stato d’attesa

Giugno 21, 2017

E’ una mostra collettiva che intende sollevare una questione vitale per un giovane artista: è il caso di essere ciò che si sa di essere, oppure è d’obbligo attendere? Vivere i propri sogni o indugiare? Aspettare ciò che si amerebbe trovare o accettare ciò che appare come l’attendere?

Questi giovani artisti si chiedono cioè se questo stato d’animo (sempre in bilico, sulla soglia di un crinale che dovrebbe scandire due momenti diversi della vita), sia un’allusione all’intollerabile permanenza delle cose o ad una momentanea contrapposizione tra immagine e realtà.  La mostra propone il lavoro di sei artisti che nello specchio dell’arte trovano il passaggio segreto per andare verso il luogo in cui si raccolgono le aspirazioni al cambiamento e il desiderio di creare. Pertanto, questa apparente scissione non rende vana l’aspirazione alla certezza.

Per Beatrice Bartolozzi, Sara Falli, Raffaele Fiorella, Fabio Fontana, Manuela Mancioppi e Antonella Mercati, trovarsi in uno STATO D’ATTESA, significa essere giunti ad una fermata e imbattersi in una sosta. Aspettare fiduciosi ma al tempo stesso prepararsi alla partenza e annunciare al mondo quanto sia prossima la metamorfosi.

I lavori suggeriscono quindi le direzioni più diverse e imprevedibili dell’attesa.  Si affrontano pause ironiche oppure giocose, tipiche di chi sa prendersi un po’ in giro. Alcune, sono cariche di note sarcastiche e pungenti come quelle di Raffaele Fiorella, mentre per altre si tratta di proposte di gioco pronte a coinvolgere il pubblico, come gli spensierati passatempi di Manuela Mancioppi. Altre ricerche invece, ci parlano di tregue affollate da note sofferte e commoventi come quelle di Antonella Mercati, o di parole tracciate in attesa che qualcuno le legga come quelle proposte da Fabio Fontana. Sono attese infantili di storie e nonsense da abbinare all’immagine come quelle di Beatrice Bartolozzi o tracce di vita attesa e poi vissuta, fotografata o dipinta come quelle di Sara Falli. Tutte hanno in comune la medesima sicurezza e fiducia di se e, in generale, esse si offrono come molteplici variabili di un medesimo quanto complesso stato d’animo.

Opere in stato d’attesa collocate sulla soglia tra conoscibile e in conoscibile capaci di evocare quella attesa interiore che abita l’animo di chi si fida perchè sente viva la propria forza. Anche se la vita professionale e il riconoscimento finale sono da intendersi come un cammino attivo e intenzionale e, allo stesso tempo, come una corsa verso un fine irraggiungibile, in entrambi i casi, il primo passo da fare è forse, quello di riconoscersi in questo stato d’attesa.

 

 

PRESENTAZIONE

Il tempo dell’attesa e il ruolo dell’immaginazione nel percepire se stessi sono preoccupazioni ricorrenti nel lavoro degli artisti. Questione questa, che si riflette non solo nelle immagini finite ma anche nel perché si produce arte. Essere ed attendere, o attendere prima di essere, sono infatti alcune delle questioni più dibattute, al punto che verrebbe da chiedersi se questo stato d’animo sia un’allusione all’intollerabile permanenza delle cose o ad una momentanea contrapposizione tra immagine e realtà.

Stato d’attesa suggerisce di dare consistenza a questa pseudo realtà che non si consuma tra la fede in se stessi e il dato oggettivo; si tratta piuttosto della spia di un profondo rispetto. È un’attenta valutazione sia per l’enigma temporale (e per le difficoltà che incontriamo nel rapportarci al trascorrere del tempo quando siamo in attesa), sia per gli sforzi del momento attuale nel tentativo di risolvere tale difficoltà.

Trovarsi in stato d’attesa significa sperimentare un processo continuo di reinvenzione della realtà attraverso cui neghiamo i contrasti del tempo. È una condizione umana che costruisce monumenti all’attesa e, nello specifico, mette in mostra il lavoro di sei artisti che nello specchio dell’arte trovano il passaggio segreto per il luogo in cui si raccolgono le aspirazioni al cambiamento e il desiderio di creare. In questo passaggio segreto, la realtà è ridotta a fantasma. Essa diventa surrogato o vero memoriale del tempo dell’attesa, dichiarando quanto produttivo e creativo possa essere questo momento.

Beatrice Bartolozzi, Sara Falli, Raffaele Fiorella, Fabio Fontana, Manuela Mancioppi e Antonella Mercati sono in attesa di partire pur facendo propria la frammentazione della realtà; pertanto, essi sono in attesa di varcare il limite dell’indefinito. Questa sottile linea che ci costringe ad attendere da un lato, ma che dall’altro dichiara possibile la libertà, è un modo, presto sperimentato da questi giovani artisti, per recuperare e reinventare giorno dopo giorno la loro identità.

Le loro sono opere in stato d’attesa, collocate sulla soglia tra conoscibile e inconoscibile. Esse sono la trascrizione fedele dell’attesa interiore che abita l’animo di chi si fida e sente la forza della propria intuizione creatrice, senza alcuna preoccupazione verso il risultato. Le loro ricerche suggeriscono le direzioni più diverse e imprevedibili dell’attesa e, come pezzi di uno stesso oggetto esploso, si offrono allo sguardo speculativo e alla conoscenza sensibile come molteplici variabili di un medesimo stato d’animo.

Essere o attendere prima di essere diventa quindi uno scarto tra ciò che si amerebbe trovare, l’essere, e ciò che più immediatamente appare come l’attendere. Tuttavia, questa apparente scissione non vanifica l’aspirazione alla certezza.

Questi lavori ci assicurano che la naturale opacità dei fenomeni può essere utilizzata per illuminare i momenti della conquista dell’io e che la vita professionale e il riconoscimento finale sono da intendersi come un cammino attivo e intenzionale.  Il primo passo che compiono è dunque quello di riconoscersi in questo stato d’attesa, senza avere la pretesa di trascenderlo.  Attesa che comunica la messa in discussione continua di se stessi e quindi, in sostanza, la continua definizione del “chi sono io”.  Ecco perché i lavori non offrono risposte ma di certo illuminano e arricchiscono questa ricerca.

Riconoscersi nello stato d’attesa, significa per Beatrice Bartolozzi trasformare questo stato d’animo in oggetto tangibile, fatto di parole che si sviluppano in segni ridottissimi. Per l’artista si tratta di lasciarsi trasportare da quell’illustrazione che si avvale del disegno su carta e dal racconto di storie brevissime che assecondano l’aspetto narrativo delle sue creazioni. Sperimentatrice di tanti media, l’artista si presenta con disegni su carta in cui le metafore visive diventano parole che si intersecano nello spazio. I rapporti tra linee e colore stabiliscono delle precise simbologie di cui l’autrice si fa portavoce, senza far prevalere la dominante dello sguardo. Sono racconti per immagine che ampliano il senso del visivo e chiedono attenzione. Ci raccontano dell’attesa nel dormiveglia. Quando vorremmo che qualcuno ci raccontasse una favola.

La languida e scioperata squadra di calcio di Raffaele Fiorella è il monumento all’antimonumento. Il segno di una civiltà dimenticata che si è beata di una deformità grottesca dai tratti tragicomici. Pupazzi come ritratti di un’epoca che deformano le proporzioni umane e che in questa regressione forzata non rende immediatamente visibile quanto ridicola, inutile e assurda sia l’iperattività di un idiota emotivo.  Essi mostrano cos’è l’attesa postmoderna nell’epoca del consumo veloce e ci dicono una semplice verità: quando non sai stare al gioco, la tua attesa significa inevitabilmente “fallimento” e fine.  La spossatezza di un calciatore ormai battuto e sconfitto che risveglia la simpatia di coloro che hanno vissuto sulla propria pelle l’attesa snervante di un futuro che poi non ha mai avuto luogo, è parte di un dramma che tutti noi viviamo.

L’attesa di vedere concluso un lavoro lungo, fatto dei lenti passaggi obbligati per trascrivere minuziosamente frasi,  parole o lettere è la cifra caratteristica di Fabio Fontana. L’attenzione per ogni più piccolo particolare che richiede tempo, attesa e poi ancora lavoro è il fulcro di una ricerca che già da tempo richiede all’osservatore uno sguardo più attento. Le sue sono relazioni da stabilire tra frammento di alfabeto e scritture. Tra caratteri tipografici e immagini di giovani uomini e donne che di queste parole sono fatti. Si tratta di segni da interpretare, di mozziconi di discorsi da assegnare a mittenti sconosciuti e di una scrittura che si fa calco, traccia di uomini che sono identificabili da quelle parole che ben presto diventeranno polvere. Dimensione primaria delle cose da ricordare, in attesa di nuove calligrafie.

Il nido di Antonella Mercati è metafora dello svuotamento e successiva riconsiderazione di senso da attribuire al legame di dipendenza reciproca che si crea fra chi nutre e chi viene nutrito.  Una mano offre del cibo da ingerire, senza ulteriori passaggi, direttamente in bocca alla ricevente. L’assenza di intermediari evoca il complesso processo che si crea – a volte inconsapevole e più spesso crudele – tra chi si assume il compito di occuparsi del cibo e chi si sottrae ad esso, per rispondere al gioco delle parti.

L’attesa del testimone filiforme imboccato con determinazione, ma senza forzatura alcuna e accolto con l’arrendevolezza docile della bambina, si trasforma così in un inscindibile cordone ombelicale che lega e costringe chi è coinvolto in questa sfaccettata dimensione scaturita dalla gratitudine frammista al senso di colpa.

Le proposte di gioco che coinvolgono il pubblico, testimoniano ancora una volta la necessità di Manuela Mancioppi di ricondurre ogni suo intervento nell’alveo della partecipazione, della socializzazione e della ricerca di complicità che caratterizza da sempre il suo lavoro. L’artista non ha mai smesso di trascinare la sua platea, abbattere gli schermi e sperimentare modalità di interazione che ora hanno a che fare con i tempi morti dell’attesa. Le sue armi sono le stesse: il carattere avvincente delle sue iniziative, la sensibilità per lo spazio espositivo, che le permettono di avere un rapporto privilegiato con l’installazione site specific e la capacità di attrarre con le sue soluzioni grafiche. Le scelte di colore e di supporti sanno infondere un po’ di fiducia, persino di fronte a temi così ambivalenti come l’attesa. Forse, bisogna solo “giocarsela”.

Il lavoro sulle immagini di Sara Falli non è dissimile da ciò che l’artista fa con le parole. Basti confrontare le immagini con ciò che viene detto nel suo romanzo d’esordio: “Vita di Saragaia”. In entrambe le modalità espressive, il tono sembra essere quello dimesso e sottile di una confidenza che a tratti sa essere anche dura e implacabile. L’insistere delle scene e degli oggetti della quotidianità, diventa la cifra caratteristica di una ricerca ostinata di bontà e di possibile condivisione, nella reinvenzione continua del suo ruolo di figlia e di madre.

Quando veste i panni della giovane artista, lei sa che è senz’altro il caso di essere ciò che sa di essere, sa di dover vivere i propri sogni senza indugio, ma anche senza attendersi clamori chiassosi. Aspettare fiduciosi e annunciare al mondo quanto sia prossima la metamorfosi è un compito difficile che .

 

Si tratta di opere in stato d’attesa collocate sulla soglia tra conoscibile e in conoscibile capaci di evocare quella attesa interiore che abita l’animo di chi si fida perchè sente viva la propria forza.

 

 

 

 

 

 

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